Presentazione della mostra Il pensiero del vento presso lo spazio Scoglio di Quarto - Milano
LEITMOTIV
Una sorta di leitmotiv accomuna le opere realizzate da Alessandra Chiappini negli ultimi anni. È una forma che, in modo più o meno esplicito, rimanda al tema iconografico della montagna, ma è una forma anzitutto sonora, una figura ritmica con funzioni analoghe al motivo guida di certa musica: richiama infatti uno stato d’animo, o forse nel nostro caso una consapevolezza, che ha un’essenza costante e una manifestazione cangiante.
Possiamo tracciare l’andamento di questo leitmotiv vedendolo dapprima affiorare nei lavori degli anni 2016 e 2017, in cui sembra avere ancora una consistenza fluttuante, per poi assistere al suo consolidarsi nelle opere del biennio successivo, quando assume una vera e propria centralità all’interno della composizione. Da qui in poi i suoi contorni, messi alla prova dalla geometria irregolare degli sfondi sui quali campeggiano, sembrano farsi più sfuggenti, ma anche più vividi, come se questo motivo acquisisse paradossalmente forza dal suo dissolvimento.
Il tema della montagna si era già imposto nelle opere create da Alessandra attorno al 2010: ma si trattava appunto di un tema iconografico, attinto da una tradizione di immagini dal valore simbolico. Ora è come se l’artista avesse sciolto il simbolo in un suono, in una frequenza energetica che, pur nella sua mutevolezza, ha una precisa riconoscibilità. Se di una tradizione iconografica è ancora possibile parlare, è di quella dello shan shui, vale a dire della pittura di paesaggio dell’antica Cina, in cui la montagna non è mai realmente descritta, ma semmai evocata nei termini di una letterale risonanza con l’interiorità dell’artista. Le creste, delineate con un tratto essenziale, dialogano con segni astratti che suggeriscono una condizione atmosferica; qualcosa di analogo avviene in alcuni lavori realizzati dall’artista tra il 2020 e il 2022, nei quali però le fattezze delle montagne sono tratteggiate da un gesto ulteriormente impetuoso: declinato con un’intensità variabile, è proprio quest’impeto dalla cadenza assidua a conferire sonorità al dipinto.
Forse, più che un’iconografia, la pittura di Alessandra può vantare una bibliografia di riferimento. Maria Chiara Cardini, nella sua introduzione alla personale presso il MiM - Museum in Motion di San Pietro al Cerro del 2021, ha indicato nei testi di Carl Gustav Jung e di James Hillman, in quelli di Eraclito e di Martin Heidegger, nelle leggende dei nativi americani e nei classici del taoismo delle possibili fonti teoriche, tra loro accomunate, aggiungo io, dall’individuazione dell’origine della realtà e dalla riflessione sul senso del divenire. Undici anni fa, quando ho scritto per la prima volta sulle opere di Alessandra in occasione di una mostra al Palazzo Farnese di Piacenza, l’autore imprescindibile per comprenderne i presupposti era Thomas Stearns Eliot. Oggi non solo i titoli dei suoi dipinti, ma anche alcuni aspetti del loro significato più profondo, non si coglierebbero senza affrontare la lettura dei versi di Wallace Stevens, un poeta americano meno noto, ma non meno vertiginosamente profondo, di Eliot, del quale peraltro è contemporaneo.
Può darsi che il primo approccio dell’artista alla scrittura di Stevens sia avvenuto in nome di un interesse condiviso per l’Irlanda, intesa come luogo in cui la natura mostra il suo profilo archetipico. Una lirica in particolare è sembrata ad Alessandra (che di recente ha tenuto una residenza artistica proprio in territorio irlandese) in particolare sintonia con il suo lavoro: quella dedicata alle Scogliere irlandesi di Moher, situate sulla costa a Ovest dell’isola, nelle quali il poeta «in cerca dell’origine», secondo il suo storico traduttore in lingua italiana Massimo Bacigalupo, intravvede un habitat primordiale, «il punto estremo» del reale, «che poi si rivela roccia». Ma Stevens, forse ancor più di Eliot, ha coltivato un rapporto tanto tortuoso quanto incessante con le arti visive, come mettono in luce i suoi Saggi sulla realtà e l’immaginazione raccolti nel volume L’angelo necessario, dal quale sono tratte queste considerazioni: «la principale relazione tra la poesia e la pittura al giorno d’oggi è semplicemente questa: in un’epoca nella quale l’incredulità è così profondamente prevalente o, se non l’incredulità, l’indifferenza per le questioni di fede, la poesia, la pittura e le arti in genere sono, a modo loro, una compensazione per quello che è stato perduto [...]. Non una fase dell’umanesimo, ma una vitale affermazione del sé».
L’affermazione del sé, effettivamente vitale non solo per la creazione artistica ma per la tenuta stessa del mondo, nella poesia di Wallace Stevens così come nella pittura di Alessandra Chiappini passa dall’immersione nel substrato impersonale della natura, da uno sprofondamento nel magma originario delle cose: quindi, paradossalmente, da una perdita di sé. In questo paradosso consiste il leitmotiv dei versi del poeta americano, e il fulcro della consapevolezza sottesa alle opere di Alessandra.
Roberto Borghi