Nota critica di Laura Salandin
L’ultimo ciclo pittorico di Alessandra Chiappini nasce dall’ispirazione tratta dal testo poetico di Stefano Torre L’uovo di Lusurasco, che ripercorre la vicenda dell’eclissi di sole sulla terra, metafora del miracolo incombente e di una realtà altra che sovrasta i casi terreni intrecciandovisi. Ripercorre dunque, in una materia pittorica totalmente rinnovata rispetto alle sue precedenti produzioni, un tema a lei caro e direi congenito al nascere della sua ispirazione poetica, quello del mito, ripreso qui attraverso il riaggancio alle costellazioni sentite come pulsione di forza e in grado di incidere sui casi umani.
Si può a ragione ritenere i quadri di Alessandra Chiappini tasselli in cui si rispecchia la realtà di un cosmo allargato a comprendere le infinite profondità dello spazio sopra di noi come i segreti reconditi dell’uomo, in un’osmosi naturale che si dà in un tratto spontaneo e felice, come in conseguenza a lunga sedimentazione di pensieri e sentimenti.
Non si tratta, in questa pittura, di ricostruire il tema o individuarne il soggetto, essendo il quadro un carico di condensati di per sé espressivi e mirabilmente sintetici di un mondo che non necessita di spiegazioni o determinazioni ulteriori a sé stesso.Sono quadri che hanno un peso visivo, un aplomb dato dalla meditazione da cui nascono, il conflitto del vivere trasfigurato nel mito e stante a significare il ripetersi della tensione vitale del cosmo: c’è in loro la dimensione della terra e del cielo, del corpo e del suo dissolvimento, della notte e del giorno, della vita e della morte che si fronteggiano e si parlano e spesso hanno già disputato una lotta, come se la storia si fosse già impadronita del reale.
Rimane solo la traccia di un conflitto nato dallo scontro di opposti che si rispecchiano uno nell’altro intrecciandosi in un’unità presupposta all’origine; resta una zolla di verità, come la zolla carsica accartocciata che si staglia sulla pianura piatta e serena, a complicarne la visione, a monito di una ulteriore dimensione, della risultanza attuale di uno scontro antico.
Così, in un calibrato gioco di rispondenze tra la terra e il cielo, il dentro e il fuori dell’uomo, il cosmo si rispecchia nell’aria e la notte si raggruma in uno scorcio di lago, la volta celeste diventa una testa di cane stagliata nel bianco di fronte a un cielo lontano nel tempo abitato da oscuri uccelli in attesa. È l’istante congelato di un flusso interiore che resta specchiato nell’occhio di chi guarda, è la vita contratta appena dopo il suo essere stata, fissata per sempre in una visione lucida e senza scorie, che si tende sul filo di un equilibrio mentale raggiunto, in una forma tersa, come nella suggestione dell’apparizione del mondo che si ha alle prime ore dell’alba, suggestione del sereno e del limpido che forse trae la sua origine dalle note suggestive con cui si apre il testo poetico di Stefano Torre, con cui questa pittura intrattiene un costante dialogo.
In un gioco di specchi si apre un colloquio-corrispondenza cosmica tra le cose che si presenta con la naturalità del dato già accaduto sotto i nostri sensi, in frammenti la cui unità consiste nella memoria di chi li ha resi presenti e vitali, la memoria che accosta calendari e steli antiche nel quadro come spie di un mondo antico, di un travaglio di pensiero mai taciuto, ma spesso esibito in primissimo piano, come nel quadro Questa terra piatta è l’altare, in cui sul fondo di un azzurro terso campeggia un intrico vegetale-viscerale, a complicare la vista. Il mito infatti, da cui la visione promana, non è semplice, trovandosi invece all’origine della nostra complessità. E viene in mente la frequentazione costante dell’artista con il mito di Dioniso a lungo esplorato e purificato qui in una visione essenziale e precisa. Resta l’ambiguità di una visione che viene da altrove, le cui ragioni prime ci sfuggono in quanto visione non totalmente metafisica, ma che mantiene al contrario la tensione che l’ha generata, come un flusso vitale segreto che alimenta l’immagine, impedendole di slittare in una realtà totalmente altra. È, quello di Alessandra Chiappini, mondo che resta qui, pianeta che gira sul suo asse, in accordo sottile con gli altri pianeti e che piange le sue sventure e vive le sue bellezze all’unisono con gli astri, in una dimensione di riflesso, in un rispecchiamento che si incorpora nel gesto del bacio del quadro Lei assiste una salma dalla faccia sbiadita, bacio emblematico che racchiude il senso di un evento. Così la purissima essenzialità del contrasto dei colori sul Cristo che muore (ma che è la morte di tutta l’umanità) in Le campane rintoccano a morto che c’è da seppellire un uomo è visione immediata ed emblematica di un conflitto dipanato, di una tragedia trascorsa e raccolta in una memoria che desta echi reconditi in noi. Sono quadri che hanno la compattezza di corpi che si incarnano in un’immagine la cui dimensione di origine è altrove, da cui promana la sensazione emblematica di antico, di sacro. Questo non deriva dal tema ma da un mondo ricomposto nella sua realtà simbolica a monte e che continua pur tuttavia a parlare in forma di visione elementare e fisica, in una poetica dell’unità ricomposta nell’uomo, nel pensiero, nel cosmo, che è di questa pittura come del testo che l’ha ispirata e che resta la cifra di lettura di un percorso pittorico che viene da lontano.
Laura Salandin