considerazioni sull'arte di Alessandra Chiappini
La mano di Adamo e la Montagna St.Victoire
di Alessandra Chiappini
A proposito del corpo vien da pensare subito a Platone, che sull’argomento ha posto per primo dei bei problemi: “finché abbiamo il corpo e la nostra anima è intrisa di cotesto male, mai riusciremo a raggiungere pienamente quello cui aspiriamo e che diciamo essere verità (…) se vogliamo mai conoscere qualcosa nella sua purezza, dobbiamo distaccarci completamente da lui e guardare con l’anima di per sé stessa le cose nella propria essenza. (…) Se poi non è possibile, assieme al corpo, venire alla conoscenza di qualcosa nella sua purezza, delle due ipotesi l’una: o non è affatto possibile raggiungere il sapere, o lo è quando si è morti.” (Fedro).
Per quanto riguarda la fallacità delle sensazioni e delle opinioni, ne abbiamo continuamente sotto gli occhi tante dimostrazioni, che credo ci sia poco da dubitare; e per quanto riguarda la pretesa del raggiungimento del sapere assoluto viene addirittura da sorridere. Però, caro Platone, gli artisti fanno parte di quella categoria di temerari che nutre la fiducia di immaginare qualche barlume di verità, almeno per quanto riguarda la vita terrena. Pensiamo per esempio a Guernica o alla Nona Sinfonia di Beethoven. Sarà forse per merito di certi dèmoni, che ispirano anche Socrate nei dialoghi, ma a volte sembra proprio che nell’arte si manifesti, come per magia, un’intuizione che fa vibrare le corde dell’anima dello spettatore, e che egli riconosce come verità, purché ovviamente nel ricevente viva un’adeguata sensibilità.
Va comunque detto che non in tutte le opere si realizza la magia, e forse sarebbe assurdo pretenderlo. A questo riguardo andrebbe richiamata l’attenzione dei collezionisti sul fatto che non c’è magia a metratura, non c’è magia prodotta in serie come forse immagina chi acquista esclusivamente sulla base dell’affermazione di un “marchio”. Bene, questo supposto disvelamento istantaneo di conoscenza, questa rivelazione, avviene nell’arte grazie agli occhi, alle mani, alle orecchie. Allora perché chiamare il corpo “cotesto male”? Il dionisiaco, che nei suoi riti tragici ha rivelato la profonda natura umana, ci chiarisce che il corpo può essere il mezzo attraverso cui si fa esperienza della conoscenza. L’uomo conosce cosa sono la fame, la brama, il desiderio, il piacere, l’amore, la rabbia, la ribellione, la perdita, la violenza, attraverso il corpo, e non nonostante questo. Michelangelo per esprimere tutte queste esperienze ha dipinto e scolpito esclusivamente corpi, e anzi li ha ampliati, ingigantiti, resi titanici per esprimere la tensione e lo sforzo del vivere.
Gli affreschi della Cappella Sistina fanno davvero tornare alla mente il discorso di Nietzsche sulla tragedia greca in cui la vita è considerata come una lotta, appunto titanica, fra opposti desideri, pulsioni, aspettative (anche se Michelangelo, in un contesto completamente diverso, l’ ha interpretata principalmente come scontro fra bene e male, intesi come Dio e Satana). Nella Grecia arcaica, l’interpretazione della vita come lotta tragica si risolveva proprio nell’ebbrezza dionisiaca attraverso cui l’individuo cessava di percepirsi come tale per identificarsi e riconciliarsi con tutti gli esseri viventi. Ed era un’ebbrezza esperita attraverso il corpo, come descrive Euripide nelle “Baccanti”. Immaginando il dono della vita all’uomo, anche Michelangelo, pur con una sensibilità molto diversa, ha puntato sulla corporeità: ha dipinto un affresco in cui Dio sfiora Adamo con un dito, in un contatto sublime tanto caro alle genti di tutto il mondo (usato nella pubblicità, stampato purtroppo perfino sulle magliette).
Per quanto riguarda poi la scelta di Platone di riporre tutte le aspettative di conoscenza nell’aldilà, è ormai molto lontano dalla sensibilità contemporanea post-illuminista e post-nichilista il vivere in attesa e in funzione di una condizione che non conosciamo, e che forse non esiste. Viene alla mente Montale, che in Ossi di seppia ha espresso in modo tanto vivido il senso del dubbio e della distanza dalla metafisica: “e andando nel sole che abbaglia/ sentire con triste meraviglia/ com’è tutta la vita e il suo travaglio/ in questo seguitare una muraglia/ che ha in cima cocci aguzzi di bottiglia”.
Nietzsche ha rifiutato di confidare nella metafisica, ma ha proposto una concezione in cui la morte ha comunque un senso, anche se diverso ( e dandole comunque un senso, di cui sembra non possiamo fare a meno, mi ha concesso di ammettere il dubbio nei confronti della concezione ebraico-cristiana): con il concetto dell’eterno ritorno ci ha suggerito che forse l’indistruttibilità della vita consiste nella successione e nella rigenerazione delle vite individuali nella vita universale in cui gli individui di ogni ordine si divorano e si sostituiscono condividendo tutti la stessa brama di vivere.
Ripensare a questa visione caotica e totale, tanto presente ai nostri antenati pre-socratici, mi rende ancora più cara e più urgente l’attività di pittrice. Che scenari immensi da rappresentare! Che varietà infinita nel campionario delle personalità umane, dei fenomeni naturali, degli eventi storici e di quelli immaginabili nel futuro! Il tutto animato dal dinamismo del divenire come nella fluidità del fiume di Eraclito…. Immagino grandi scene pervase dal movimento con figure corporee umane, animali, vegetali e minerali circondate da una pittura densa e viva.
E fra le figure reali e quelle fantastiche c’è un’immagine antica, complessa, particolarmente ricca di suggestioni e di connotazioni simboliche che merita una menzione in un discorso sul corpo: il corpo ibrido e immaginario del centauro, del Minotauro e del satiro. Qui il dato fisico è più che mai centrale, si tratta addirittura della fusione di più corpi. I centauri sono gli aggressori delle donne dei Lapiti, il Minotauro è il divoratore di adolescenti, i satiri sono l’incubo delle ninfe. In tutte queste creature sono centrali l’ingordigia, la brutalità e la violenza sessuale o omicida, insomma l’ignoranza o la prevaricazione del limite stabilito per l’uomo dalla legge morale e dalla stessa com-passione verso il proprio simile.
Vien da pensare che la civiltà greca, che nel dionisiaco ha esperito e riconosciuto intimamente gli istinti più violenti, il “terribile” inesprimibile se non nell’urlo, abbia poi sentito il bisogno di relegarlo al di fuori dell’uomo, in creature semi-bestiali immaginate, con una collettiva opera di rimozione censoria. Ma tornando al nostro scenario di vita universale, di esuberante e straripante zoè in cui si susseguono miriadi di generazioni, eventi geologici, estinzioni, evoluzioni morfologiche, penso a una pittura che si incarichi sia di immaginare la bellezza del sogno apollineo sia di evocare, come l’informe coro nella tragedia greca, ciò che la forma non può trasmettere: il tumulto del pathos, o meglio dei multiformi sentimenti contrastanti che si dibattono in quel magma fecondo.
A questo proposito si potrebbe aprire il problema della scelta fra un linguaggio figurativo, appunto legato alla rappresentazione del corpo, o un linguaggio informale, o gestuale, e il ready-made. Io credo che una scelta forzata non sia raccomandabile, e sono convinta delle potenzialità della commistione dei generi. Robert Rauschenberg si è mosso con grande libertà e con grande efficacia proprio mettendo in relazione rappresentazione, gesto ed oggetti prelevati dal loro contesto. Casomai sono gli irrigidimenti a priori che possono generare pantani di incomunicabilità.
Il caro e stimatissimo artista Paolo Baratella mi ha spiazzata una volta durante una discussione sull’arte puramente astratta domandandomi se, quando sogno, sogno forse i triangoli sospesi nel vuoto di Kandinsky. Il riferimento all’attività onirica sta qui a significare la volontà di attenersi alla verità “incensurata” della psiche umana, che quando si esprime, lo fa attraverso figure corporee. Probabilmente se non vogliamo tradire la nostra stessa corporeità non dobbiamo trascurare di mostrarla con rappresentazioni anche figurative. Un altro dubbio sulla rigida separazione dei generi mi è suggerito dal ready-made puro, e dall’intrinseca “debolezza” dell’esprimersi esclusivamente tramite gli oggetti, in rari casi pur molto efficace: nei suoi celebri viaggi Gulliver si imbatte in una civiltà che per superare il problema dell’ambiguità del linguaggio ha optato per esprimersi esclusivamente indicando gli oggetti concreti. Gulliver obbietta che difficilmente allora si potrebbe comunicare il concetto di “balena” e ancor meno di “tutte le balene del mondo”.
Considerando invece il campo della pittura “ortodossa” con attenzione particolare al corpo, non si può non fare riferimento all’opera di Paul Cézanne, il primo pittore che ha teorizzato lo stile con cui intendeva rappresentare la realtà, e che nel far questo ha messo al centro della sua ricerca proprio il corpo, non solo umano, ma inteso in senso lato come entità estesa e percepibile con i sensi. “Trattare la natura secondo il cilindro, il cono e la sfera”: Filiberto Menna ha individuato in questa poetica cézanniana l’inizio della riflessione moderna sull’arte. G.C. Argan ha scritto probabilmente le sue pagine più belle proprio nella spiegazione dell’opera del burbero artista provenzale che nel rappresentare un oggetto rifletteva sulla sua estensione spaziale e sulla possibilità di ricondurre ogni corpo a forme geometriche essenziali: i solidi regolari.
L’estimatore di Cézanne apprezza nei suoi quadri il fatto che mentre osserva un oggetto ne capisce profondamente la logica costitutiva, ne comprende la struttura spaziale, non ne percepisce solo l’aspetto epidermico ma coglie la spiegazione del suo sviluppo. Magnifiche in questo senso sono soprattutto le diverse rappresentazioni della Montagne St.Victoire in cui la complessa superficie è analizzata logicamente, pezzo per pezzo, con un’efficacia quasi tattile. L’approccio di Cézanne è pieno di interesse, e la predilezione del tema della montagna costituisce sempre un magnifico spunto di indagine formale e spaziale permettendo di fare una pittura imparentata con la scultura, una pittura concreta, e appunto, corposa. Ma anche al livello del contenuto il tema della montagna è sempre ricco di suggestioni e di connotazioni simboliche perché nell’immaginario di ognuno è depositata l’idea del monte sacro, più vicino all’incorruttibilità del cielo, luogo di culto dei nostri antenati pagani, luogo di riconciliazione dopo il diluvio per Deucalione come per Noè, e della consegna delle Tavole della Legge.
Ma la montagna è forse ancora più affascinante per il suo valore di testimone del tempo, per quella posizione dominante ottenuta emergendo dalle viscere della terra, con la manifestazione delle molteplici stratificazioni che nei millenni l’hanno letteralmente costituita insieme alle enormi spinte tettoniche che l’ hanno fatta emergere, rendendola anche scrigno di innumerevoli testimonianze fossili di vita imprigionata e cristallizzata per sempre. E poi la montagna considerata come corpo ha un’aura particolare in quanto spettatrice solenne e imperturbabile delle vicende naturali e storiche, a sua volta erosa ed invecchiata dal tempo e dagli elementi, emblema “vissuto” di durata e insieme di consunzione.